L'editoriale del direttore Elio Pariota: "Quel calcio così diverso"
- di Redazione Il Solidale
- 16 lug 2016
Il calcio è business, solo business. Punto e basta. E’ dura accettare questa cinica verità. Inguaribili romantici del pallone noi tifosi crediamo ancora nelle favole e nell’attaccamento alla maglia.
Idolatriamo questo o quel campione (ma sono davvero tali?) salvo patire delusioni cocenti incassando intollerabili voltafaccia. Eppure un tempo non lontanissimo il calcio era altro; il fuoriclasse era la bandiera della squadra, l’orgoglio della propria Società e l’idolo di un’intera città.
Poi i giudici della Corte di Giustizia delle Comunità Europee ci misero lo zampino e sentenziarono che i calciatori professionisti aventi cittadinanza nell’UE alla scadenza contrattuale avrebbero potuto trasferirsi gratuitamente a un altro club. Correva l’anno 1995 e quella pronuncia passò alla storia come “sentenza Bosman” dal nome del semisconosciuto calciatore Jean Marc Bosman che l’aveva provocata e che ha finito per creare un terremoto nel mondo del pallone.
Un ventenne di oggi strabuzzerebbe gli occhi nello scoprire che una volta si restava proprietà del proprio club dopo la scadenza del contratto; oppure che il ruolo dei procuratori – attraverso i quali i costi dei cartellini e degli ingaggi sono oggi saliti alle stelle – era assai circoscritto.
Di questo dobbiamo tener conto quanto tacciamo di “tradimento” i nostri beniamini. I quali sono nient’altro che prodotti del mercato e si allocano dove sussistono le migliori condizioni di impiego. Cuore, passione, etica, statura morale, lasciamoli da parte. Quel calcio fatto di sudore e lealtà è scomparso da un pezzo.
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