Ritratti d'America: lo spettro dell'emarginazione

  • di Redazione Il Solidale
  • 17 ago 2016
  • CULTURA

Ritratti d'America: lo spettro dell'emarginazione

Il Wisconsin è uno stato americano ad ovest dei Grandi Laghi. Famoso per l'industria casearia, gli abitanti sono soprannominati "cheeseheads" ("teste di formaggio"). L'economia gravita attorno all'industria farmaceutica, all'università e al settore pubblico. Madison ne è la capitale, una cittadina senza infamia e senza lode dominata dal monumentale palazzo in stile neoclassico del governo dello stato.

 

In un ostello faccio amicizia con Tony, un estroverso quarantenne nigeriano cresciuto in America. Siamo entrambi nomadi. Si è fatto tre giorni di autobus dal Texas per partecipare ad uno studio clinico: lo pagano $4.000 (ca. €3.500) "per stare un mese in ospedale a far niente" - l'equivalente di sei mesi d'affitto. Mi racconta il suo percorso. Come gran parte degli americani, fa una miriade di lavori, prima di costituire la propria impresa di ristorazione ambulante in California: con la crisi finanziaria perde tutto, e si ritrova a vivere nella propria auto per mesi. Torna a fare piccoli lavori, finché scopre la manna degli studi clinici: da anni quindi percorre gli Stati Uniti per fare da cavia alle aziende farmaceutiche, e questo gli permette un'esistenza relativamente tranquilla fra un affitto e il prossimo.

 

Mi trovo all'entrata della biblioteca cittadina: una donna di mezza età, fra i senza tetto che all'ombra bevono nei paraggi, mi guarda scuotendo la testa. Le vado incontro con le mani alzate e le chiedo se sono nei guai. "Non si può fumare a meno di 30 piedi da un edificio pubblico. Tu non sei di queste parti, vero?". Sorride e le offro una sigaretta. "Già. Non sapevo. Però ho visto il cartello che vieta di entrare armati." Mi racconta le sue peripezie. Originaria dell'Illinois, un uragano le ha distrutto la casa; da quasi un anno vaga con il marito da un accampamento della protezione civile all'altro, rimanendovi finché non chiudono. Profughi in terra propria. Mi racconta che il marito è in carcere, arrestato qualche giorno prima per aggressione sostanziale ai danni di un pubblico ufficiale. "Aspetta", la interrompo, "sostanziale? Quindi anche l'aggressione apparente è reato?" Si mette a ridere, "lo so, assurdo, no?" E conclude: beato il marito, che almeno ha un letto e tre pasti al giorno.

 

La biblioteca, aperta al pubblico, è frequentata per metà da un ampio spettro di disagiati: giovani mentalmente instabili che cercano disperatamente di attirare l'attenzione; senza tetto che si intrattengono su internet o sonnecchiano facendo finta di leggere; madri che parcheggiano i figli ai tavoli con buste formato-famiglia di patatine. I bagni sono perennemente occupati da tossicodipendenti. Un luogo di cultura e di alienazione al tempo stesso: pare un esempio tratto da "Capitalismo e schizofrenia" di Deleuze e Guattari. La quiete brutale del posto è interrotta di volta in volta da un malore improvviso o un episodio psicotico.

 

Lì lavora una ragazza, per dirla con Manzoni, "cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa." La ragazza è di queste parti, ma chiaramente ne è anche estranea. Assorta nei propri pensieri, è impegnata a mettere copertine ai libri nuovi, sistemare i libri consegnati, con l'efficacia e la diligenza di chi ci tiene a fare bene il proprio lavoro. Mentre scambiamo due chiacchiere, dice al collega che oggi si prenderà la pausa: questi la guarda esterrefatto - è la prima volta. La sua storia ricorda "L'esclusa" di Pirandello, con la trama rimasta in sospeso. Mi rendo conto che la cortesia con cui la ragazza tratta indistintamente clienti e colleghi è anche un modo per prenderne le distanze, e per affermare la propria integrità in un ambiente malsano di cui non si sente parte. A ben vedere la sua vera occupazione è un compito infinito: rimettere ordine in un mondo che minaccia di stravolgerne il proprio.

 

Marco Amuso