Le banche scommettono, i governi pregano
- di Redazione Il Solidale
- 30 ago 2016
Tutte le grandi banche possiedono all'attivo strumenti finanziari rischiosi chiamati "derivati". Nella forma più semplice, si tratta di contratti di compravendita in cui il prezzo di un bene (reale o sintetico) che sarà scambiato domani è fissato oggi. Alla scadenza, la differenza fra valore effettivo e contrattuale genera un profitto o una perdita. Si tratta, essenzialmente, di scommesse sull'andamento dei prezzi, o dei tassi d'interesse. L'insieme di queste operazioni, in cui sono coinvolti anche stati nazionali, costituisce il casinò, cioè il mercato, dei derivati: un mercato mondiale senza vigilanza indipendente.
I derivati hanno due caratteristiche che li rendono particolarmente appetibili agli speculatori: la prima, comportano un spesa iniziale corrispondente ad una frazione irrisoria del valore complessivo del contratto; la seconda, per via di un meccanismo noto come "leva finanziaria", quando i tassi d'interesse sono bassi, all'acquirente conviene prendere quella somma in prestito, piuttosto che pagarla di tasca propria. I tassi d'interesse americani sono rimasti prossimi allo 0% per otto anni consecutivi. E dal 2008 le banche hanno un incentivo in più per indebitarsi aldilà di ogni ragionevole misura: la certezza che i governi interverranno per salvarle a spese dei contribuenti in caso di fallimento. Invece di essere castigate, le banche sono state premiate una seconda volta, con la mancata regolamentazione delle loro attività. La crisi del 2008 ha in effetti cambiato il sistema: lo ha peggiorato.
Alcuni dati della Banca dei Regolamenti Internazionali indicano l'esistenza di una bolla speculativa di proporzioni bibliche. Il valore complessivo del mercato dei derivati è stimato a ca. €488.300 miliardi: 8 volte il PIL mondiale (ca. €65.000 miliardi). Secondo i dati forniti dal ministero del tesoro americano, le cinque principali banche commerciali del paese sono esposte in derivati per €203.500 miliardi. In Europa, invece, i derivati incidono per il 20% dell'attivo nelle banche in Germania e nel Regno Unito; la media europea è 17%; il dato italiano è del 5% circa - una percentuale incredibile agli occhi di uno studente al primo anno di economia.
La Deutsche Bank da sola è esposta per circa €73.000 miliardi in derivati; secondo il Fondo Monetario Internazionale, è al momento la banca più pericolosa al mondo, per la situazione di precarietà finanziaria in cui versa. Sfiduciata dai mercati, le sue azioni hanno perso il 70% del valore: la stampa inglese l'ha definita senza mezzi termini "il primo cavaliere" di una possibile "apocalisse finanziaria". In caso di fallimento, gli scenari peggiori evocano un ritorno all'economia del baratto. Al governo tedesco non resta che pregare in un risanamento miracoloso della banca: il passivo totale della Deutsche Bank è di poco inferiore all'intero PIL italiano.
Come se non bastasse, la Deutsche Bank - così come le altre - ha all'attivo strumenti derivati ad-hoc, non negoziati sui mercati, ai quali è la banca stessa ad attribuire un valore arbitrario. Non occorre essere iniziati agli arcani della finanza per intuire che la banca ha interesse a sopravvalutare sistematicamente queste attività. D'altro canto, si tratta comunque di valori che dipendono dalla possibilità di scambiare con altre banche o liquidare in qualche modo lo strumento finanziario: se tale probabilità è pari a zero, l'attività non vale nulla.
Il 10 febbraio 2016, la Commissione Europea annuncia la posticipazione a gennaio 2018 dell'entrata in vigore della direttiva MiFID II, che regola i mercati dei derivati. La Commissione motiva la decisione citando "eccezionali difficoltà di applicazione delle regole a cui devono fare fronte i regolatori, così come i partecipanti al mercato". Sembra una preoccupante ammissione preventiva di impotenza da parte delle autorità: invece, com'è noto, il rinvio è stato imposto dal governo tedesco, con il consenso tacito di tutti gli altri governi, e la benedizione dei finanzieri londinesi. Les jeux sont faits.
Marco Amuso