CETA: l'accordo di libero scambio UE-Canada

  • di Redazione Il Solidale
  • 31 ago 2016

CETA: l'accordo di libero scambio UE-Canada

Salvo un improbabile rinvio, è prevista ad ottobre la firma dell'"Accordo Economico e Commerciale Globale" fra l'Unione Europea e il Canada (noto come "CETA"), un trattato di libero scambio negoziato in maniera opaca dalla Commissione Europea, dal governo canadese e dalle multinazionali, senza consultazioni pubbliche né contributi da parte della società civile. Il governo italiano si è ufficialmente espresso a favore all'entrata in vigore del trattato senza ratifica parlamentare, cioè senza dibattito pubblico.

 

Gli accordi di libero scambio di stampo anglo-sassone si articolano in tre capitoli: barriere tariffarie, barriere non tariffarie e protezione dell'investimento.

 

Il CETA rimuove quasi tutte le barriere tariffarie fra l'UE e il Canada. I prodotti esportati verso il Canada costeranno relativamente meno al consumatore canadese: ma questo non incide sulla dimensione della clientela di nicchia a cui possono puntare le PMI italiane, né sui costi di promozione necessari per l'introduzione di nuovi prodotti nel mercato, né sui costi di trasporto, né sui tempi di consegna.

 

Per quanto riguarda le barriere non tariffarie, si tratta di ostacoli alla circolazione di persone e merci di natura normativa: quindi norme che regolano i visti, gli appalti pubblici, la proprietà intellettuale, i dati personali, il lavoro, la sanità e l'ambiente. In questi due ambiti, l'UE e il Canada divergono in maniera significativa: in materia agro-alimentare, le norme canadesi autorizzano l'uso di OGM nelle colture e della farmacia a tutto spiano nell'allevamento. Viceversa, in materia di sfruttamento delle risorse naturali, di cui il Canada è ricco e l'Europa povera, quelle europee non sono comprensive quanto quelle canadesi. Nella logica del minimo comune denominatore che implica l'accordo di libero scambio, la norma applicabile è sempre quella meno vincolante per le aziende.

 

In effetti il fulcro del trattato è la cosiddetta protezione dell'investimento. Il CETA introduce una forma di arbitrato commerciale (noto come "ISDS") che equipara le aziende agli stati: cioè gli interessi privati all'interesse generale. Le multinazionali possono citare in giudizio gli stati (non viceversa), se questi applicano norme che (a tutela dei consumatori e dell'ambiente) ne ostacolano gli affari. Un collegio di tre arbitri (avvocati d'affari privati che lucrano sulle procedure) giudica il caso in udienze segrete. Nell'ambito di questo quadro giuridico, nel 2010, ad esempio, la Philip Morris denuncia l'Uruguay per l'introduzione di norme che uniformano i pacchetti di sigarette, reclamando $2 miliardi di risarcimento; nel 2012, la svedese Vattenfall richiede al governo tedesco un risarcimento di €3,7 miliardi per la sua rinuncia all'energia nucleare dopo il disastro di Fukushima. In caso di giudizio favorevole all'azienda, quindi, il cittadino paga per il mancato profitto della stessa. Ma il cittadino paga anche quando a vincere è il suo stato: paga le spese della difesa.

 

Non abbiamo nulla da temere dalle aziende canadesi; in realtà, sono i canadesi a preoccuparsi ad esempio per la privatizzazione forzata delle loro "municipalizzate" dell'acqua per mano dei colossi francesi; per la desertificazione dei loro mari per mano dei pescatori spagnoli; per la devastazione della loro terra per via dello sfruttamento delle sabbie bituminose da parte dei petrolieri europei; per l'avvelenamento del loro sottosuolo per via della fratturazione idraulica da parte degli stessi: insomma, le multinazionali europee sono note all'estero per essere tanto rapaci quanto quelle americane. Ma 32.000 di queste hanno filiali in Canada, e ciascuna può fare ricorso contro qualsiasi stato europeo per “proteggere” il proprio investimento. Il CETA, di fatto, è il preludio del ben più temibile "TTIP" ("Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti"), l'accordo previsto di libero scambio fra l'UE e gli Stati Uniti.

 

Marco Amuso