Bruxelles blocca Bruxelles

  • di Redazione Il Solidale
  • 28 ott 2016
  • OPINIONI

Bruxelles blocca Bruxelles

Sul treno in partenza da Bruxelles a Liegi gli annunci sono in francese e in fiammingo. Ad un certo punto, sono soltanto in fiammingo; e poi soltanto in francese. Ma la voce è sempre la stessa, quella del capotreno che parla entrambe le lingue con un accento; e i messaggi che scorrono sullo schermo dicono sempre le stesse cose. La sostanza non cambia: cambiano i luoghi. Il treno attraversa le tre zone linguistiche in cui è rigorosamente suddiviso il Belgio: la capitale bilingue (però a maggioranza francofona, ci tengono a precisare), le Fiandre fiamminghe, e la Vallonia francese. 

Che, inaspettatamente, ostacola la firma del CETA, l'accordo di libero scambio UE-Canada. Nell'UE, i trattati commerciali sono di competenza della Commissione europea, non più dei singoli stati; ma la Commissione, libera di negoziarli (o no), può procedere alla firma soltanto con il consenso unanime degli stati membri. Manca quello del Belgio, cui governo è vincolato dal veto delle amministrazioni federali, esercitato in questo caso dal parlamento vallone. Per i dirigenti valloni, indifferenti agli ultimatum e allo scherno vessatorio di avversari politici e stampa schierata, il CETA semplicemente non promette nulla di buono. Su questo concorda chiunque in buona fede abbia anche solo sfiorato l'argomento. 

La Vallonia è una regione grande poco più della Calabria, popolata da 3,5 milioni di abitanti. Ma non è una regione qualsiasi: è il luogo dove, contemporaneamente al nord dell'Inghilterra, ebbe inizio la Rivoluzione industriale. Si tratta quindi del relitto geo- e demografico di quell'era più antico sul Continente. Per quasi un secolo, il carbone di cui il territorio era ricco ha alimentato l'industria siderurgica, attraendo ondate successive di lavoratori, prima fiamminghi dalle campagne e poi immigrati. Il disastro di Marcinelle, nel 1956, segna il declino, con la morte di 262 minatori, fra cui italiani, belgi, polacchi, greci, tedeschi, algerini, ungheresi, francesi, un inglese, un olandese, un russo e un ucraino - un indelebile fotogramma della mondializzazione che, per produrre ricchezza, genera miseria. 

Da quell'epoca, la Vallonia riafferma per gradi la propria identità. Ma aldilà della lingua e delle arti, la cultura si radica nel territorio, e in tutto ciò che si può tramandare. I contadini e gli artigiani valloni di oggi lo sanno. Nulla di strano che i loro dirigenti, vicini alle esigenze della società civile, si oppongano, con modestia e serenità, a ciò che ritarda la riconversione ad un mondo pre-industrializzato. Il progresso non sta nel modo di vivere ereditato dalla Rivoluzione industriale, che ad intervalli sempre più frequenti, una qualche novità promette (cioè minaccia) di rilanciare una volta per tutte: una nuova tecnologia, una nuova riforma, un nuovo modo di lavorare, oppure, un nuovo accordo di libero scambio. 

I primi a congratularsi con la Vallonia per l'opposizione al CETA, sono i canadesi del Québec, che parlano francese con una pronuncia vecchia di cinque secoli e la sintassi inglese odierna. Un giornale di Montréal ringrazia i valloni per l'indifferenza nei confronti delle "élite mondialiste", il termine anglo-sassone per dire "capitalisti". Vandana Shiva, nota attivista indiana, di passaggio in Belgio per una manifestazione culturale, riconosce nell'impassibilità vallone un qualcosa di gandhiano. In effetti siamo linguisticamente indo-europei. L'emblema della Vallonia è il gallo: in Francia, la satira reclama l'annessione; e in una vignetta tratta da Astérix, il capo chiede "ma chi sono questi valorosi valloni che sfidano la Commissione europea!". La sostanza non cambia, ma è bello vedere ciascuno esprimere solidarietà a modo suo e col proprio linguaggio.

Marco Amuso