Expo un viaggio nei padiglioni nazionali (Terza parte)
- di Redazione Il Solidale
- 17 set 2015
- OPINIONI
Milano. Dopo aver commentato l’Expo in generale, ed essermi soffermato sulla Sicilia in particolare, mi sembra opportuno fare un cenno agli altri partecipanti. In linea di principio, i padiglioni nazionali sono perlopiù espressioni fedeli delle culture che rappresentano. In ordine sparso, fra i casi più rappresentativi e pertinenti:
Il padiglione della Germania è un "terreno di idee", cioè una sintesi idealista: astratto nella forma, concettuale nei contenuti, trascendentale nel movimento - in basso si mangia (bene), nel mezzo si riflette, sul terrazzo con vista si medita. Gli spazi sono organizzati in aree tematiche in apparenza non comunicanti. La visita inizia con la spiegazione del funzionamento del padiglione: a ciascuno viene consegnato un quaderno vuoto che interagisce con le proiezioni virtuali sparse all'interno. Le esperienze sensoriali - i suoni della natura ad esempio - vanno rigorosamente interpretate in senso formativo. Lo spettacolo finale obbligatorio, affidato a due giovani talenti musicali che invitano a divertirsi riflettendo – o viceversa, è pieno di buone intenzioni: ma appena i tedeschi si spostano sul piano simbolico diventano un po’ indigesti.
La didattica riesce molto meglio alla nazione che l'ha perfezionata: la Francia. Il viale geometrico che conduce al padiglione è una rassegna enciclopedica delle produzioni agricole francesi, suddivise per territorio e stagionalità e illustrate da didascalie giganti, complete di grafici e mappe. Si scopre la potenza agricola della Francia. Si prosegue attraverso un percorso di lavagne con voci incorporate che spiegano perché si ha fame, perché si brevetta quella molecola, a che punto è questa ricerca e così via. A metà strada, una tabella in cui si firmano gli sponsor ufficiali del padiglione: si rivela la potenza industriale francese sotto l’egida dello Stato. Al centro, un qualcosa che ricorda un focolaio, ornato da attrezzi da cucina sospesi, allestimento ermetico che evoca un non so che di umanista. Alla fine della serie di lezioni, il punto ristoro con le solite golosità d'Oltralpe ha un sapore di déjà vu. I francesi, a differenza dei tedeschi, diffidano dell'ascetismo: mente e corpo vanno nutriti simultaneamente. Mangio, dunque sono.
L'edonismo francese è superato solo da quello italiano. Chiaramente non in termini di quantità, ma nel senso che gli italiani lo dimostrano in più forme, fra cui spiccano vanità e superficialità. L’Italia è un paese che più di qualsiasi altro è capace di produrre bellezza di ogni specie, in ogni epoca e qualunque contesto. Il cardo sul quale si articolano le regioni e le aziende italiane è un viaggio inebriante, fra immagini, suoni e profumi che nessuna altra nazione può riproporre in modo coerente, senza confondere lo spettatore. Ma alla fine di questo percorso, viene spontaneo chiedersi se l'Italia, oltre alla crisi, soffra di pigrizia: in fin dei conti, spendiamo senza criterio la nostra infinita eredità. D’altro canto, persone che hanno seguito, a vario titolo, i retroscena dell'Expo ci confermano che alcuni soggetti organizzatori di primo piano hanno partecipato controvoglia, spendendosi anzi per il rinvio della manifestazione, perché costretti ad impegni presi da altri. Fra i segni postumi di questa riluttanza insensata ci sono ovviamente i cantieri ancora aperti; le regole di fruizione degli spazi, di somministrazione di cibi e bevande che cambiano da un giorno all'altro. Almeno la concentrazione all'Expo di tanta ricchezza serve a curare l'assuefazione ai tesori che prendiamo per scontato fra un terremoto e un'orda di turisti selvaggi. Hanno ragione i calabresi che rifiutano di esporre lì i Bronzi di Riace - l'unica voce "No Expo" di senso compiuto; e la mostra esagerata di Sgarbi ha il sapore di qualcosa cucinato in fretta per compensare un digiuno creativo.
Fra le aziende italiane davvero nuove c'è solo Eataly, una società immobiliare e di servizi che si è costruita con la scusa della cucina italiana un monumento faraonico in cui infila nello stesso ristorante Sicilia e Sardegna, suppongo perché entrambe isole. Altro monumento, ma allo spreco stavolta, il padiglione Italia, una matassa ingombrante che pare una protesta contro il buon gusto. Incomprensibile il bunker in cemento armato addobbato con una replica della Madonnina, dedicato al Duomo di Milano. Evidentemente, un paese come l'Italia che produce così tanta bellezza, è capace anche di produrre altrettanta bruttezza, senza nemmeno passare dal grottesco di sua invenzione.
Fra le conferme, la Svizzera, che ci accoglie con una visita guidata tanto garbata quanto completa – ma a determinate ore la visita puntualmente si paga. Un po' come i tedeschi, si presenta in categorie concettuali: il caffè, il sale, le mele, l'acqua. Come i francesi, racconta perché e per come esporta più caffè di cioccolato e formaggio, spiega il risparmio con disegni alla lavagna, e al posto delle coltivazioni dei vicini, mette in mostra un plastico del Gottardo sul quale sgocciolano piogge simulate. Come l'Italia, non rinuncia all’intrattenimento musicale né alle sfilate di moda, e si esibisce nel genio artistico con una parte dedicata al movimento autoctono, il dadaismo. E infine presenta Zurigo, la convergenza di queste tendenze, come modello sostenibile di vita urbana: da ex villaggio di pescatori a città cosmopolita giovane, tecnologica, efficiente.
Si presentava così la Spagna degli anni '90, oggi visibilmente a corto di idee, o di modelli da imitare, che insiste con gli stessi luoghi comuni della nazione seducente e spiritosa, al netto però delle provocazioni da manuale per cui è famosa. Forse perché per gli spagnoli, ogni sforzo vale solo la rendita che ne consegue? È vero solo in parte: come dimostra il padiglione - una stanza di specchi interattivi a forma di piatto – gli spagnoli, dopo essere stati intontiti dall’adulazione che ha accompagnato la vertiginosa crescita economica degli ultimi decenni, si sono cristallizzati nel più sincero narcisismo, e scadono nel kitsch con una facilità che ricorda un po’ l’Italia degli anni ’80, salvo per il modo di scuola francese di vantarsi in campo culinario e culturale.
I belgi, invece, si distinguono con il padiglione più elegante di tutta l’Expo. Il Belgio è uno dei paesi più pericolosi per la democrazia occidentale: ha dimostrato la sostanziale inutilità dello stato centrale unitario. Benché diviso in due da una cortina più rigida del ferro, la frontiera linguistica francese-fiammingo, a cui corrispondono due amministrazioni rigorosamente separate in casa, continua ad esistere e a prosperare, indifferente, di fatto, a litigi di condominio camuffati da polemiche politiche. C’è un motivo preciso per cui la frontiera linguistica, per definizione porosa, sia così marcata: coincide con un confine socio-economico. In effetti, un tempo il Sud ricco di risorse naturali, fabbriche e immigrati trainava il Nord agricolo e arretrato, colonizzato da funzionari di stato francofoni che imponevano la propria lingua al “terzo stato” di mercanti e contadini fiamminghi; oggi la situazione si è invertita, con il Nord dinamico e autonomo, e il Sud impegnato a re-inventarsi un’economia indipendente rispetto al potere politico. Detto ciò, il Belgio continua a presentarsi al mondo unito, così come all’Expo, nella birra, nel cioccolato e nelle fritture - e, tacitamente, nel cattolicesimo.
Al contrario, nazioni infinitamente più grandi – Stati Uniti e Cina – celano lacerazioni più profonde, un po’ per orgoglio nazionale un po’ per esigenze di politica estera. Sorge un dubbio circa questi due paesi che si contendono, con mezzi diversi, il primato di potenza mondiale: se lo facciano più per abitudine e per obbligo di retorica che per convinzione. Entrambe le nazioni, all'Expo, si presentano con un profilo basso, se non dimesso, raccolte l'una intorno al simbolo della propria unità – il Presidente – e l'altra intorno all'essenza della propria permanenza – le tradizioni millenarie. Espressione pura di volontà da un lato e di perseveranza dall’altro.
Mentre il Brasile, paese complesso e acerbo, sebbene già potenza media, ancora alla ricerca di una propria identità, allestisce uno spazio ispirato all’astrattismo, si fanno portavoce della natura incontaminata, indomabile quindi affascinante, paesi sudamericani fra cui Ecuador, Colombia e Cile. Queste tre nazioni, così diverse per storia e cultura si attribuiscono tutte un’identità geografica che riflette sia i rispettivi dislivelli del paesaggio sociale che le fortune alterne delle rispettive economie: dai fondali marini, alle spiagge, agli altipiani, alle montagne coperte di nuvole, le scenografie accompagnano il visitatore attraverso un caleidoscopio di ambienti remoti, più o meno ostili all’uomo, più o meno ricchi di risorse, ma tutti incantevoli. Il Cile è senza dubbio il paese più economicamente maturo fra questi, poiché identifica ciascun contesto naturale con un personaggio che rappresenta l’attività dell’uomo in quell’ambito.
Tuttavia, è l’Uruguay il paese che forse articola meglio l’idea di uno sviluppo socio-economico per sua natura condivisibile da tutto il Continente Nuovo: in un cortometraggio istruttivo, ma non didattico, mette in scena il dialogo fra una bambina e il nonno, emigrato dall’Italia, che racconta con la sua storia quella del paese d'adozione – la storia di chi ha lasciato la propria famiglia per fondare con estranei una nuova nazione aldilà di quelle già esistenti. Marco Amuso